La storia dei quasi

Un blog, un'idea, l'incessante voglia di dire qualcosa, anche qualcosa di inutile non fa differenza. Eppure eccoci qua. Se sei approdato su queste pagina sappi che non è colpa tua, l'autore si assume la piena responsabilità di ciò che accade tra queste pagine, o anche di ciò che non accade.

I Quasi della Vita è un posto come tanti, una storia come tante. La storia di come nella vita qualcosa può andare bene ma, per un motivo o per un altro finisce male. La storia di come quel piccolo, infinitesimale e bastardissimo "quasi" separa la gloria dall'ennesima cosa incompiuta. E questo ti basta sapere.

venerdì 29 giugno 2012

Il cavaliere dalle scarpe rotte


Una persona può mancarti in tanti modi diversi. Ti può mancare con la mente, con il cuore, con l'anima... tu mi manchi a livello epidermico. Mi manca il fatto che toccandoti so che questa è la tua pelle.

Soffoco questi pensieri mentre cerco di restare calmo e rilassato. Ci sono giorni in cui il sorriso si piazza sul tuo volto per prendersi gioco della mia anima.

Con l’arroganza del guerriero cerco di portarti in salvo dalle tue paure.

La Torre Eiffel tinta di mille colori mi umilia con la sua bellezza. E’ li, arrugginisce. Ci insegna che si può creare qualcosa di stupendo dal più umile dei materiali. Non si sposta, non si ritira, non si vergogna della sua nudità di ferro.
La sua più grande lezione è che non si deve mai chiedere scusa per ciò che si è.

La principessa trema. Teme per le sorti di un cavaliere dalle scarpe rotte.

Mi irrigidisco. Respiro paura e ossigeno. Potrei morire anche adesso. Guardo la Torre, so cosa fare. Non mi sposto, non mi ritiro. Un cavaliere non si vergogna mai della propria armatura.

<<E se questo drago fosse troppo forte?>>
<<Ho sempre desiderato un’animale domestico>>
<<Sciocco, perché non mi cacci via?>>
<<Sono sempre stato solo, nelle tue paure ho riconosciuto un individuo della mia stessa specie.>>


domenica 17 giugno 2012

Start

Start. Il mio nome è una lama, sottile e affilata. Solo una parola. Parola che racconta una storia che non si vede. Dice una cosa. No. E' un'altra. Tutte scommesse che non si possono vincere. Sono silenzioso mentre grido. Sono buono nella mia cattiveria, sono cattivo nella mia bontà. Cosa? Solo essenza, nulla più. Sto riflettendo troppo. Libera. Libero. Liberi. Il mio nome ferisce, taglia, corrompe. Un miasma di vocali e consonanti. Non lo pronunciare, arriverò. Sono arrivato. Eccomi. Che brutto... cos'è questo sorriso? E questo tocco gentile? Stai forse provando ad aiutarmi? Aiutami. Aiutati. E poi uccidi. Fai qualcosa, ma uccidi. Un taglio alla gola, un taglio alle labbra. Sangue ovunque. Un dolore nel palato. Un solco nell'anima. Compromessi.
Tutto è nulla, nulla è tutto. Una storia che si ricorda per sempre, un giorno che si dimentica subito. Tutto scivola nei paradossi del mio nome e delle mie parole. Non capisco come sia possibile. E' solo un momento, o un lungo stillicidio,  non abbiamo ancora dati da poter analizzare. Vivo esattamente come un elaboratore. Il mio flusso è solo una continua analisi, non c'è nulla di emotivo.
Stop.
Go. Sento la notte. Mi dice che è morta. La parola morte è sulle mie labbra. Si muove sulla mia lingua, sibilando nel bel mezzo nulla, vicino ad occhi curiosi. Ridono. Ma tu non eri un tipo gentile? Lo ero. Poi sono morto anche io. Ho detto il mio nome troppe volte, scusate. E' che mi chiamo proprio così, non ci posso fare nulla. All'anagrafe gli stronzi li chiamano come me, esiste un protocollo apposito, sul serio.
Non che io sia sbagliato, la perfezione si manifesta in ogni mio errore. Questo perché lo dico io, e lo dico io perché io porto il mio nome. Davvero, mi chiamo come me, anche se non si direbbe. Fuori sta uscendo il sole, il signore colombo, un pennuto, fa tu-tu tu-tu. Chissà cosa pensa. Sarà un buon giorno per lui? Mi perdo nei libri, mi piace. Per un attimo mi sono perso in un romanzo di Dostoevkij. Ero uno dei suoi tanti personaggi. Ma lui mi dava un nome insulso, perciò mi sono ritrovato qui, in  una notte che è diventata mattina, nello stesso istante in cui un attimo è diventato scrittura.
Come mi chiamo ora?


sabato 9 giugno 2012

Cecità


Nel cassetto della scrivania sono accatastate le lettere che ti scrivevo quando ti guardavo dormire. Non ti scrivo da tanto, non ci riesco. Per questo ho preso questo simpatico registratore, e sto facendo gracchiare la mia voce nell’altoparlante. Me ne sto qui, da sola, a fissarti. Ti sento russare, tu non lo sai, ma sei davvero dolce mentre dormi. Vista dall’esterno sembro proprio una dodicenne che si incanta guardando l’amore della sua vita. Qui, invece, nel mio mondo interno, in questo condominio d’organi difettoso, c’è il buio più totale. So di essere qui, a pochi passi da te, eppure nel buio in cui i miei occhi mi hanno confinato potrei essere davvero ovunque.
Te lo ricordi quel giorno? Era il 15 settembre del 2009. Il giorno in cui i miei occhi hanno detto addio ai tuoi.
La mia personale giornata mondiale della cecità. Il D. Day dello sbarco nel mondo dell’oscurità.
Ho paura Steve. Sono passati tre anni ed ho ancora paura. Sono proprio una bambina, come dici tu. Vent’anni suonati ed ho ancora paura del buio, di questo buio.
Non ricordo bene com’è iniziata. Le persone sentono puzza di merda, solo quando ne sono sommersi. 
Suonerà infantile, ma mi sono resa conto di essere cieca, nello stesso momento in cui lo sono diventata. La realtà è che evitavo il problema. I miei occhi non facevano altro che avvertirmi.
Tutto iniziò con i colori. Di tanto in tanto ero un po’ daltonica. Nulla di preoccupante mi dicevo. Spesso era anche divertente. Ricordo il giorno in cui mi prendesti in giro perché scambiai i tuoi occhi marroni per azzurri. Ti promisi che non avrei più perso di vista le mie piccole noci, come li chiamavo sempre prima. Ti devo delle scuse. Ho dovuto dire addio ai tuoi occhi senza rendermene conto. 
E’ successo tutto così, senza una causa apparente. Sono scomparsi prima i colori, un po’ alla volta. Poi quella tragica mattina tutto è iniziato a sbiadire, lentamente e inesorabilmente. I medici mi hanno dato mille pareri diversi, mille spiegazioni ma nessuno di loro è stato in grado di ridarmi ciò che è il destino si era preso. Il destino mi ha negato la possibilità di vedere i tuoi occhi. 
Sai, tutti sappiamo che certe cose accadano, però non pensiamo mai che quella tristezza venga a bussare proprio alla nostra porta. Sono stata così stupida e infantile. Per anni ho guardato il mondo con l’arroganza di chi pensa che tutto durerà per sempre. La verità è che prima o poi tutto svanisce, nel mio caso tutto è svanito letteralmente. Mi manca così tanto il mondo. Mi mancano i paesaggi ricchi di colori. Mi mancano i girasoli. Mi mancano le gocce d’umidità. Mi manca persino la nebbia. Mi mancano i tuoi occhi. La verità è che ho passato una vita a guardare cose incredibilmente belle e non ho mai detto grazie.
Perché i miei occhi non possono incrociarsi di nuovo con i tuoi? Un semplice sguardo, intenso, assoluto. Mi basta un impercettibile istante di te. Non te l’ho mai detto ma per mesi ho lottato con terapie, operazioni, convegni e associazioni umanitarie perché avevo bisogno di cancellare l’ultima immagine vista, che continua a tormentarmi.
Quel giorno tremavo. Più tremavo, più mi stringevi. Sentivo che la vista si stava restringendo sempre di più. Il mondo che i miei occhi erano ancora capace di vedere diventava sempre più piccolo. E tu eri lì, centimetro dopo centimetro. Sai, stretta in quell’abbraccio, quando per me il mondo era un piccolo spazio ti ho visto piangere. Il tuo sguardo triste è stata l’ultima cosa che ho visto, poi il buio più totale. Ed io vorrei solo rivedere un sorriso su quegl’occhi bagnati dalle lacrime.
Era il 15 settembre 2009. Il giorno in cui i miei occhi hanno conosciuto le tue labbra. Mi hai stretto forte a te. Hai cercato di costruire un guscio intorno al mio condominio ferito. E mi hai baciato, proprio qui, sulle palpebre. Quel giorno il più dolce dei baci si è posato sulla più dolorosa delle bue.
E ora svegliati, la tua bimba cieca ha proprio bisogno di un abbraccio.

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