giovedì 2 agosto 2012

Infradito


L’agente che mi sta di fronte mi guarda come se fossi pazza. Il suo collega, invece, ha lo stesso sguardo di chi si trova davanti ad un cucciolo preso a sprangate. E’ buffo ma tutti gli uomini della mia vita mi hanno sempre visto nello stesso modo, per loro o ero una squilibrata o una povera deficiente indifesa. A trent’anni suonati, ancora devo decidere quale delle due cose sia più irritante.
Entrambi mi fanno domande su domande. Dicono che tutti i dettagli possono essere utili. Dicono che posso farcela, che sono forte, che sono stata brava. Si sbagliano. Sono solo triste e patetica. Cerco di restare concentrata. Restare in questo posto che gli altri chiamano realtà è tremendamente difficile per me. Da quando mi hanno violentata tutto è tremendamente difficile per me. Non sono più una persona, ma un riassunto umano. La versione integrale di me è rimasta lì, in quel vicoletto sporco di ingiustizia e lacrime.
Gli agenti continuano a parlare. Ormai li ascolto a tratti. Mi sento come una televisione rotta che perde il segnale in continuazione. Se c’è una cosa che non mi è stata strappata via quella sera è la mia fantasia. Quando mi assento dalla realtà mi sento protetta. Tutti abbiamo un piccolo rifugio. Un luogo in cui il resto del mondo non esiste. Un piccolo spazio inviolato in cui si sentirsi protetti.  Come la mano di un bambino che stringe quella materna, come il caldo abbraccio della persona amata. Un nascondiglio in cui fuggire quando il mondo fa paura. Durante i miei viaggi non può succedermi nulla, ed è solo in quei momenti che riesco a trovare un po’ di pace.
Gli agenti continuano a blaterare. Non riescono a fare a me di parlare della mia forza. Della mia straordinaria capacità di reagire. Che ne sanno loro? Se solo sapessero come cammino per strada. Ho paura. Ho tremendamente paura. Una volta era una persona normale, ora sono solo triste, patetica e paranoica. Cammino guardando male chiunque, persino dei bambini che giocano mi sembrano dei potenziali stupratori. Ogni passo che faccio è incerto. Non importa quale sia la via, io cammino sempre su una fune sospesa per aria. E il guaio è che non ho la minima idea di quando farò un passo falso.
Mi ricollego al mondo reale, ma non vorrei. Alcune domande mi riportano a quegl’attimi. Tremo. E’ buffo come si finisce a pensare alle cose più assurde mentre ti stuprano. Prima di arrendermi definitivamente ho pensato che era assurdo essere violentate in infradito. Sarà che sono particolarmente esigente sul vestire e pretendo l’abito giusto in ogni momento ma, incredibile a dirlo, se mi fosse stata concessa la possibilità di scegliere avrei impiegato un’ora per decidere che scarpe mettere. Questo però lo tengo per me, sono già abbastanza pazza agl’occhi dell’agente.
Ho sempre vissuto nella sicurezza che certe cose accadono in posti lussuriosi, nei viottoli vicino a night-club e localini esotici. A me è successo mentre tornavo a casa dopo aver fatto la spesa. Se questo mi rende ancora più patetica o particolarmente attraente da meritare uno stupro, questo proprio non lo so. Ricordo la lotta, la volontà di sopravvivere. La forza con cui volevo difendere qualcosa che fino a quel momento avevo considerato solo mio. La parte più triste è stata la consapevolezza di ciò che sarebbe successo. Non il dolore, non la paura, a distruggermi è stato il terrore dell’inevitabile, quella sensazione che ti prende quando ti senti assolutamente indifeso. Così mi sono lasciata andare. Mi sono spenta. Ero lì, ma allo stesso tempo viaggiavo lontana, al di fuori del mio corpo, al di fuori di tutto.
Ecco cosa racconto agli agenti quando mi chiedono come sto. Quel giorno sono stata svuotata. Hanno aperto un buco in me e da lì è fuoriuscita la mia anima. Da allora con la testa viaggio alla ricerca di me stessa. Lo so, sono lì, da qualche parte. Magari un giorno mi ritroverò a sedere tranquilla ad un bar. Chissà se avrò un bel paio di scarpe. Del resto, cosa volete che faccia una donna patetica?




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